[dropcap color=”#” bgcolor=”#” sradius=”0″]U[/dropcap]na premessa è d’obbligo. Come qualcuno scherzosamente ricorda: “Noi non ci occupiamo di calcio «minore»”. Per cui, normalmente, rivolgere lo sguardo verso lidi nazionali poco ci attira. Ma salire per un attimo sulla nave scuola che da sette anni ininterrotti governa il campionato di serie A può essere esercizio produttivo.
Parliamo della Juventus, ovviamente. Ebbene, tra gli aspetti della Vecchia Signora che meritano di essere studiati c’è la sua capacità camaleontica di mutare sé stessa durante la partita. Allegri ha oramai allevato i suoi all’interpretazione – sempre rabbiosa e attenta peraltro – di più moduli e sistemi in corso d’opera. E il vantaggio che ne ricava non si esaurisce soltanto, e già non sarebbe poco, nel destabilizzare le certezze che gli avversari hanno maturato nella gara ma risiede anche nella possibilità di utilizzare più giocatori di volta in volta funzionali allo sviluppo dell’incontro.
L’ultimo esempio, al netto della sconfitta in Champions contro un Real che ha sparigliato grazie a CR7, un «ufo» sceso sulla terra, è stato il match con il Milan di sabato scorso, quando Douglas Costa e Cuadrado, partiti dalla panchina, hanno stravolto la faccia tattica dei bianconeri (si è passati dal 3-5-2 iniziale al 4-2-3-1 finale) contribuendo a venire a capo di un confronto che nel frattempo era diventato complicato.
Torniamo dalle nostre parti (quindi facendo tutte le differenze del caso) e rileviamo che il Foggia ha invece un canovaccio rigido dal quale non deroga mai o quasi. Stroppa ha sempre detto: “A me non piace cambiare tanto per farlo”, ed è una posizione legittima su cui il tecnico di Mulazzano ha costruito le fortune della sua corazzata di Lega Pro.
Quest’anno è partito con il 4-3-3 (“azzardando” il 3-5-2 solo ad Avellino) e sino allo Spezia (8 dicembre) si è mantenuto coerente nello schema e anche nelle sostituzioni. Infatti, bypassando i cambi obbligati per infortunio, la tendenza è sempre stata quella di inserire durante la gara due esterni di attacco (in virtù del dispendio enorme di energie richiesto per il ruolo) e un intermedio di centrocampo.
Per cui i vari Fedato, Chiricò, Beretta, Calderini (per una porzione minima di girone), Nicastro e Floriano (questi ultimi due molto spesso out per problemi fisici) si sono alternati nel tridente a fianco dell’indispensabile Mazzeo (bloccatosi però il 18 novembre con la Ternana e tornato in campo solo a gennaio). Così come attorno al perno Vacca hanno ruotato Agnelli, Agazzi, Gerbo e Deli. L’unico sempre escluso (nemmeno un minuto per lui sinora) è stato il francese Ramè, vero oggetto misterioso del Foggia 2017/18.
La rivoluzione ideologica è arrivata proprio al Picco il giorno dell’Immacolata: da allora sempre e solo 3-5-2 con il mercato di gennaio che ha santificato la mutazione genetica. Via gli esterni del 4-3-3 (tra i quali anche Sarno fuori lista nella 1ª parte di torneo), dentro laterali e centrali adatti al 3-5-2, con Zambelli e Kragl subito titolari assieme a Greco, chiamato a rimpiazzare Vacca, e Tonucci, l’iniezione di “ignoranza” per la difesa.
Dal Pescara in poi Stroppa non ha mai abiurato in partita il suo 3-5-2 (se non per cause di forza maggiore, “leggasi” espulsioni di Novara e Parma) preferendo dare certezze granitiche ai suoi. I risultati lo hanno confortato, con i rossoneri usciti dalle secche della bassa classifica e proiettati verso una salvezza tranquilla.
Questa solidità di progetto, però, ha prodotto anche la “sparizione” di alcuni calciatori impiegati nel girone di andata. Su tutti, Giacomo Beretta, 6 reti e una mole di lavoro enorme nei 1249 minuti giocati: di questi – però – appena 16 (a Novara) dal 3 febbraio in poi. Per il resto neppure un istante nella mischia con il francese Duhamel divenuto alternativa praticamente unica al duo di attacco Mazzeo-Nicastro.
Così come non ha più dato il suo contributo Alessandro Celli, che aveva debuttato a Vercelli il 29 ottobre e approfittando dello stop di Rubin aveva collezionato 8 presenze, la più recente nel rocambolesco 2-2 con il Venezia il 15 dicembre.
Se di Figliomeni si erano già perse le tracce (6 minuti a Salerno nell’intero campionato) e di Calabresi (arrivato nella finestra invernale di trasferimenti ma mai impiegato) non si sono ancora intercettate, un altro che – forse anche per il modulo – fatica a trovare più spazio è Floriano: dopo i 90’ contro il Frosinone (ultima di andata), infatti, Roberto ha disputato 46’ in tutto (29 con l’Avellino, 11 a Perugia, 3 con Cesena e Parma), peraltro venendo sperimentato anche come interno sinistro del 3-5-2, nella porzione di campo occupata stabilmente da Deli.
Un caso a parte è quello di Rubin, rimasto in Capitanata ma chiaramente fuori dal progetto. Mentre per ciò che concerne Fedato, si è “riciclato” come quinto di destra ed ha giocato in quel ruolo 18 minuti con il Brescia e 73 con il Cesena, quando le contemporanee assenze di Gerbo e Zambelli gli hanno permesso di essere schierato dall’inizio.
A guardare i cambi, poi, si nota come nel ritorno due siano quasi fissi: Duhamel è subentrato 8 volte e Scaglia 7. Il terzo è fluttuante, con Floriano e Zambelli utilizzati a partita in corso rispettivamente 4 e 3 volte. Dunque, schemi rigidi nel sistema e nelle sostituzioni. Una filosofia chiara, diversa da quella ad esempio della Juve ma funzionale al raggiungimento dell’obiettivo salvezza. Per volare più in alto, forse, occorrerà “inventarsi” qualcosa di differente.
Ma quando i 50 punti saranno conquistati, siamo sicuri che Giovanni Stroppa darà libero sfogo alla sua fantasia…