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DI DOMENICO CARELLA – Ci vuole tempo per metabolizzare le cose, soprattutto quelle che fanno male. Un dolore non fisico ma spirituale, interno. Ci vuole tempo ma nessuno sa quanto, perché non è semplice misurarlo. Capita quindi che un attimo sembri eterno. Quando ieri sera Matteo è entrato per l’ultima volta nel suo stadio e si è posto dinanzi alla sua curva, il tempo ha smesso di essere una macchina perfetta. Si è fermato, forse è andato indietro, forse era anche lui lì, inerme, a guardare una scena che toglie il fiato e annebbia i pensieri, al punto che chi vi scrive ha dovuto aspettare qualche ora per mettere in fila due parole. Tutta la sua curva era lì, come cinque, dieci, venti anni fa. Unita. Cori potenti, forti, compatti. Volevano che li sentisse anche Matteo… ci sono riusciti, ne sono sicuro. Non poteva esserci un saluto più bello per uno che allo stadio ha lasciato il cuore. Ma soprattutto ha lasciato un ricordo fatto di disponibilità, cortesia, intelligenza e rispetto. Fortunato è l’uomo che possiede tutte queste qualità e lui le aveva. Vederlo uscire dal campo per l’ultima volta ha fatto male. Molto male. Sembrava una scena degna di un film, triste e malinconico, ancor più di Casablanca. Ma la scena più bella è giunta pochi secondi dopo. La curva non si è alzata per andare via. E’ rimasta lì, cantava ancora cori… fragorosi. La curva che vuole continuare a cantare, forse in segno di doveroso rispetto a chi ha dato l’anima per tenerla viva e attiva per anni. Forse perché dall’alto, quando il corteo ha abbandonato il campo, qualcuno ha lanciato un nuovo coro e tutti lo hanno seguito. Come sempre.
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